Intervista allo Sciamano (p.2)

di D. Jensen

Traduzione di Anticorpi.info
Continua dalla Prima Parte.

Jensen:
Cosa si può fare per placare gli spiriti?

Prechtel: 
Su un pianeta finito non si può crescere all’infinito. Si è cercato di sviluppare tecnologie capaci di proteggere; medicine per intorpidire il dolore, fortezze per tenere lontani gli spiriti. Ma niente di tutto questo funziona realmente. Nella nostra cultura quando una famiglia è assediata da uno spirito lo sciamano lo cattura, ne sviscera le componenti e le rimanda una alla volta nell’altro mondo. Infine concorda con la famiglia un programma di conservazione del rinnovato rapporto con l’altro mondo. Non ho idea di come una simile pratica possa replicarsi nella cultura occidentale. Come possono i seguaci di una cultura che considera la terra una cosa morta, ripagare il loro debito nella sua interezza? Come possono allontanarsi da tutti quegli spiriti? Con quanto è stato fatto, e per così tanto tempo, potranno mai davvero essere in grado di fare ritorno a casa?Per sentirci a casa in qualsiasi posto, e vivere armoniosamente in esso, dobbiamo prima comprendere dove ci troviamo, e osservare ciò che ci circonda. In secondo luogo, dobbiamo avere coscienza delle nostre radici. In terzo luogo, dobbiamo nutrire gli  spiriti dei nostri antenati, così che la loro fame non si nutra di noi e di coloro che ci circondano. Infine, dobbiamo cominciare a provare dolore. Ora, provare dolore non significa sedersi da qualche parte e piangere tutto il giorno. Significa piuttosto usare i doni che ci sono stati concessi per creare bellezza da donare agli spiriti. Il dolore non manifestato diventa una sorta di scoria tossica nell’organismo di una persona, ed una crepa nelle fondamenta di una cultura nell’insieme. Queste scorie devono essere epurate, sia dal punto di vista individuale che culturale, dobbiamo iniziare a sentire il dolore, deliziosa, eloquente medicina. Poi possiamo iniziare a tributare i nostri doni spirituali alla terra su cui viviamo, la quale un giorno concederà ai nostri nipoti il permesso di vivere su di se.

Jensen: 
Che rapporto c’è tra il dolore e la appartenenza ad un luogo?

Prechtel:
Nel villaggio guatemalteco ove ho vissuto non appartieni alla comunità fino a quando qualcuno della tua gente non muore in quel luogo, ed i sopravvissuti piangono la sua scomparsa, in quel luogo. Fino a quando un numero adeguato di generazioni della tua gente non saranno morte e sepolte sotto quella terra, e la tua anima addolorata non avrà nutrito quella stessa terra, resti un turista, un visitatore.

Mentre vivevo al villaggio uno dei miei figli, ancora bambino, morì di tifo. Fu quando lo persi, che misteriosamente e improvvisamente fui accolto come un vero e proprio appartenente alla comunità. Come se con il mio dolore – che espressi mediante un rituale – avessi pagato l’affitto di quel suolo. Mio figlio si era unito a quella terra, così ora ero come fisicamente collegato alle rocce, agli alberi e all’aria. E visto che tutti gli altri abitanti del villaggio per le medesime ragioni erano collegati al territorio, da quel momento anche io fui legato a loro da un legame di parentela.

Ora, è probabile che i vostri antenati colonizzatori provenienti dalla Danimarca, dalla Francia e dalla Scozia siano stati seppelliti in Nord America, dunque perché non siete ancora i benvenuti qui? Come mai non avete sviluppato il legame con le rocce, gli alberi e l’aria? Perché i vostri antenati defunti sono anime non ancora iniziate, le quali non sono ancora diventate antenati, perché il loro debito non è mai stato ripagato con il dolore e la bellezza. Il giorno che essi si uniranno al territorio diventeranno veri antenati ed inizieranno a non ostacolare la strada dei vivi. A quel punto scoprirete di avere molto meno bisogno di tostapane e computer – di avere meno bisogno di qualsiasi cosa. E finalmente inizierete a vivere armoniosamente.

A tal fine, dovrete studiare la eloquenza, il dolore e il sacrificio. Non sto parlando del tipo di sacrificio in cui qualcuno impone a qualcun’altro tre giorni di lavoro, sebbene simili attività possano fare parte del sacrificio. Sto parlando di tributare al non umano, piuttosto che all’umano.

Jensen: 
Quindi dovremmo fare i conti con gli spiriti, e poi …

Prechtel: 
Poi sarà il momento di lavorare sulla conservazione, che è di gran lunga l’elemento più importante. La vostra cultura è basata sulla riparazione delle cose, piuttosto che sulla loro conservazione. Ma quando qualcosa viene curata costantemente, non è più necessario ripararla, e i problemi che ci assillano diventano molto più semplici da risolvere.

Non mi riferisco alla conservazione in senso materiale. Nel mio discorso, il verbo ‘conservare’ significa trovare la strada. Dovrebbe significare la risposta alla domanda: “Che cosa devo fare qui?” La nostra cultura tiene molto da conto la libertà individuale, ma tale libertà può essere goduta solo quando vi è un villaggio che ci attenda per proteggerci, e un gruppo di anziani sorridenti e compassionevoli capaci di cogliere la complessità del mondo degli spiriti, e dunque proteggerci da noi stessi.

Jensen:
Come hanno fatto le tradizioni maya a sopravvivere alla reprimenda dei missionari spagnoli ?

Prechtel:
Gli spagnoli giunsero nel nostro paese nel 1524, e dopo avere demolito il nostro antico tempio usarono le sue pietre per costruire una chiesa nello stesso sito. Era una pratica comune. Ma la gente Tzutujil è caparbia. Si fissarono in mente ognuna delle pietre usate per costruire la nuova chiesa, compresa la loro esatta collocazione, per potere ricostruire il tempio in futuro.

Durante il mio addestramento da sciamano dovetti imparare a memoria la forma e la disposizione di tutte quelle pietre, in quanto erano sacre. Mi sentivo come un tassista alle prime armi lungo le strade di Londra.

I sacerdoti cattolici lasciarono il paese nel 1600 a causa di terremoti ed epidemie di colera. Quando fecero ritorno, molti anni più tardi, trovarono un grosso foro al centro del pavimento della chiesa. Alla richiesta di spiegazioni gli indiani risposero che il foro fosse stato approntato per piantarvi la croce nelle rappresentazioni della crocifissione. In realtà quel buco era qualcosa di vuoto da non riempire, era il vuoto lasciato dal tempio distrutto ed era il collegamento con i livelli di esistenza in cui il tempio era ancora intatto. Per quattro secoli e mezzo gli indiani preservarono segretamente le loro tradizioni in modi che gli europei non avrebbero mai potuto vedere o comprendere. Se gli spagnoli chiedevano loro: “Dov’è il tuo Dio?” gli indiani correvano con la mente a questo posto vuoto.

Ma quando il clero americano tornò nel 1950, non si lasciò ingannare. Bollarono il ‘posto vuoto’ come idolatria pagana, e lo riempirono di cemento. Ero presente quando accadde, nel 1976. Ero livido dalla rabbia. Andai dal consiglio del villaggio e diedi in escandescenze. Gli anziani mi ascoltarono, fumando tranquillamente i loro sigari, e si dissero concordi. Dopo un’ora o giù di lì, quando  a furia di urlare avevo finito il fiato, gli anziani si diedero a conversare di tutt’altro argomento. “Ma insomma non importa a nessuno?” domandai. “Oh, sì”, risposero. “Certo che ci importa. Ma questi cristiani sono davvero stupidi se pensano di poter sbarrare un passaggio da questo all’altro mondo con un po’ di fango. E le tue preoccupazioni sono ridicole. Ma se proprio ti preme di fare qualcosa, eccoti una pala, un piccone ed uno scalpello. Riapri il buco.”

Lo feci, con l’aiuto di alcuni anziani. Ma i cattolici lo riempirono ancora. Due settimane più tardi lo aprimmo nuovamente … e così via. Andammo avanti in questo modo diverse volte fino a quando, finalmente, qualcuno pensò di tappare il buco con un masso, così i cattolici poterono illudersi che non fosse sempre lì, e noi potemmo scoperchiarlo ogni volta che si presentasse la necessità. Questa storia la dice lunga su quale sia lo attuale stato spirituale delle genti occidentali. Il buco, il posto vuoto che deve essere nutrito è sempre lì, ma è stato coperto da una amnesia spirituale. Ci diamo da fare tutto il tempo per riempire quel bellissimo posto vuoto con la droga, la televisione, le patatine – qualsiasi cosa. Ma non può essere riempito, perché ha bisogno di essere vuoto.

Jensen:
Da dove nasce la sacralità di un ‘posto vuoto’?

Prechtel:
Il popolo maya crede che il mondo non sia venuto fuori della mano di un creatore, ma sia nato da questo posto vuoto e si sia sviluppato come un albero, il cui frutto è la diversità. Gli esseri umani non facevano parte di quell’albero, ma tutto ciò che era su di esso alla fine confluì nella umanità. In noi coesistono semi di zucca, procioni, amebe. In noi c’è tutto. Quando l’albero raggiunse la maturità fiorì e diede i suoi frutti fatti di suoni, i quali cadendo a terra germogliarono e diedero alla luce i diversi tipi di vita. Poi l’albero morì e si trasformò in un humus formato da suoni antichi, i suoni che consentono alle cose di fiorire.

Tutto ciò che udiamo, il tatto. il gusto sono in realtà la manifestazione di tale originaria diversità, il che vuol dire che l’albero non è davvero morto, ma solo disgregato, e sia impegnato a cercare di ‘ricordare’ se stesso. Ogni anno nel mio paese, i giovani iniziati alla età adulta scendono nel buco verso l’altro mondo per cercare di riportare in vita l’albero dei loro antenati. Pongono i semi con i loro suoni sacri e le loro lacrime nel punto in cui il vecchio albero aveva vissuto. E l’albero ricresce.

Gli iniziati sono in grado di scendere in quel luogo vuoto e ripristinare l’albero della vita, perché conoscono le virtù della eloquenza, del lutto, e sanno come opporsi alla morte, piuttosto che uccidere altri esseri.

Jensen: 
Opponendosi alla morte negano la sua inevitabilità?

Prechtel: 
No, al contrario, lottano con essa. Affinché la vita possa esistere è necessario che sia in atto un incontro di lotta spirituale con la morte; in caso contrario da spirituale la battaglia diventerà fisica, e letale. I maya hanno tredici divinità della vita e tredici della morte. Tali divinità non hanno immaginazione, ed è per questo che per nutrirsi ci uccidono; per ottenere le nostre anime, la nostra immaginazione. Quando la morte ha carpito la tua anima, è felice e smette di uccidere per un po’. Tuttavia in seguito è necessario che qualcuno si rechi verso il basso per chiedere – usando tutta la propria eloquenza – la restituzione della anima.

Quando la morte si rifiuta, allora devi giocare con essa, perché la morte obbedisce ad un’unica regola: la regola dell’azzardo. E devi cercare di ingannarla con la tua eloquenza. Questo è ciò che noi chiamiamo ‘lottare con la morte.’ La morte non si può uccidere, naturalmente. Il miglior risultato che puoi sperare di ottenere è di condurla ad una situazione di stallo.

Se ci riuscirai, la morte dirà: ‘Va bene, ti darò indietro l’anima se prometti di continuare ad alimentarmi con la tua eloquenza su base regolare, e se prometti di morire quando sarà giunta la tua ora.’
Durante l’iniziazione, quando i giovani lottano con la morte, in sostanza essi stanno firmando un contratto che dice: ‘Rinuncio al concetto idealistico di vivere per sempre.’
L’anima viene restituita, ma in cambio bisogna dedicare ritualmente una percentuale del frutto della nostra arte, della nostra eloquenza e della nostra immaginazione allo altro mondo.

Questo è l’unico modo di trattare con la morte. Se si tenta di trovare un affare migliore, si finisce per uccidere un sacco di gente. Quando un’intera cultura cerca di fare un affare migliore, o si rifiuta di lottare con la morte mediante la propria eloquenza, la morte risale in superficie e letteralmente ci sbrana a forza di guerre e depressione.

Jensen:
Dimmi di più della anima selvatica.

Prechtel:
Qualsiasi individuo a questo mondo, a prescindere dal suo background culturale o etnico, possiede una anima selvatica che lotta per sopravvivere nello ambiente ostile creato dalla mente di quell’individuo. Il corpo di una persona moderna è diventato un campo di battaglia tra la mente razionalista – che aderisce ai valori dell’era delle macchine – e l’anima nativa. Questa battaglia è la causa di una grande quantità di malattie spirituali e fisiche. Nel corso degli ultimi secoli una mentalità senza cuore e distruttrice di culture ha imposto il proprio cosiddetto progresso sulla terra, divorando tutti i popoli, la natura, l’immaginazione e la conoscenza spirituale. Come un bulldozer, tutto ciò che capita sotto il suo incedere è raso al suolo. Ogni essere umano su questa terra, sia esso africano, asiatico, europeo oppure americano, proviene da antenati le cui storie, i rituali, lingue e tradizioni sono stati distrutti o vietati da questa mentalità.

Tale retaggio è stato bandito in fondo ai ghetti del nostro cuore, o nascosto alla vista all’interno del paesaggio spirituale. Ci hanno insegnato a credere che i nostri pensieri siano in realtà il centro della nostra vita. Che la realtà che ci circonda sia comprensibile solo tramite la cultura tecnologica moderna a cui apparteniamo, e non più con l’anima selvatica. Ma l’anima selvatica non è ciò che induce qualcuno a fare i week-end a contatto con la natura per poi tornare a indossare il proprio completino grigio lavorativo, nella ‘vita vera.’ Non è una attività ludica da farsi perché è divertente e alla moda. Deve essere autentica, e deve essere spiritualmente costosa.

Jensen:
Parliamo per un momento di cooptazione. Esistono due posizioni comuni in merito alla pratica delle tradizioni indigene. La prima è che non c’è niente di sbagliato nel costruire una capanna sudatoria nel proprio giardino per i ritiri spirituali del fine settimana, pur continuando ad essere un agente di borsa nei giorni feriali.

Prechtel:
Il sistema dei consumatori.

Jensen:
L’altro – che sottoscrivo – è che sia necessario rispettare la privacy delle tradizioni indigene e non sfruttarle per soddisfare i nostri scopi.

Prechtel:
E’ ciò che cerco di fare. Nei miei libri faccio sempre molta attenzione a rispettare la segretezza sulle tradizioni maya. A Pueblo – dove sono cresciuto – la scrittura era tabù, perché nel momento in cui viene trasposta in forma scritta la conoscenza si blocca, ed anche perché molta conoscenza diventa inutile quando perde la sua segretezza e sacralità. Spesso le cose più sacre sono anche le più semplici e comuni. Quando questa ordinarietà viene onorata in modi sottili, diventa straordinaria e mantiene la sua utilità spirituale.

Jensen:
Le tradizioni di cui scrivi non sono quelle appartenenti ai tuoi luoghi natali, nel sud.

Prechtel:
No, tuttavia sono vissuto a Santiago Atitlan, in Guatemala, per molti anni. Lì mi sono sposato e sono nati i miei figli. Poi, con l’arrivo degli squadroni della morte supportati dagli Stati Uniti più di 1.800 abitanti del villaggio furono uccisi nei successivi sette anni: furono sparati, picchiati, torturati, avvelenati, fatti a pezzi, lasciati morire di fame, decapitati, o fatti sparire. Tutto ciò si è consumato in un villaggio in cui, prima del 1979, la maggior parte delle persone non aveva mai udito un colpo di pistola.

Fu posta una taglia sulla mia testa ed in tre diverse occasioni, nel 1980, andai molto vicino alla morte. A quel punto decisi di tornare negli Stati Uniti con la mia famiglia al seguito. Successivamente mia moglie tornò a casa e portò con se i nostri due figli. I ragazzi poi decisero di ritornare a vivere da me, ed oggi sono diventati uomini.

Poi, nel 1992 ci fu un altro massacro, e dovetti tornare in Guatemala. Alcuni giovani uomini Tzutujil vennero a prendermi con un pick-up, cosa già di per se strana, dato che a mia memoria nessuno nel villaggio aveva mai posseduto un’automobile. Erano trascorsi solo otto anni dal giorno in cui li avevo lasciati, e già avevano scordato il nome del mio maestro, che fu uno degli sciamani più grandi e famosi in circolazione. Nel corso del viaggio avemmo modo di parlare, e mi resi conto che quei giovani ignoravano o avevano scordato molte nozioni relative alle tradizioni locali. ‘Come mai non conoscete cose così importanti?’, chiesi loro. ‘Beh’  mi rispose uno dei ragazzi, indicando i suoi compagni: ‘loro due sono cristiani, e ai cristiani è proibito conoscere queste cose, e il resto di noi non ha avuto genitori. Sono stati uccisi nel 1980.’

Martín Prechtel

Così eccomi qua: biondo mezzosangue americano slegato da qualsiasi rapporto etnico rispetto a quei giovani, eppure impegnato a raccontar loro la storia del loro stesso popolo. Fu a quel punto che realizzai che quei ragazzi, così come i miei figli, non avrebbero mai conosciuto la ricchezza della vita del villaggio. La loro connessione con quei luoghi stava sparendo. Decisi così che avrei trascritto tutto ciò che sapevo di quelle tradizioni, badando tuttavia a non scendere troppo nei dettagli per evitare che i rituali potessero essere espropriati come la terra. Tutto ciò ha irritato molte persone negli Stati Uniti, che insistono nel chiedermi come farlo. Ma io gli rispondo che non si tratta mica di tecnologia.

Jensen:
Hai detto in modo esplicito che il potere dello sciamanesimo non risiede in parole o preghiere specifiche.

Prechtel:
Il mio maestro diceva sempre che – se mai vi sia una ultima speranza di vivere bene su questa terra – essa  va perseguita donando nuova linfa alle antiche radici. Questo non vuol dire che dovremmo fare qualcosa di nuovo, ma che dovremmo fare qualcosa di vecchio in un modo nuovo, che richieda grande coraggio. Ho trascritto nei miei libri la tradizione orale con la speranza che essa possa risvegliare nei lettori il ricordo delle loro origini, così che le loro anime selvatiche possano iniziare a risorgere. Ed ho anche pregato i lettori di non affrettarsi a prendere aerei per recarsi in Guatemala. Una simile deriva non farebbe che portare ulteriore crepacuore e saccheggio. Ognuno deve trovare la risposta nel proprio giardino di casa.

L’unica ragione per esplorare una cultura diversa, dovrebbe essere il percepire la pochezza della propria stessa cultura. Se anche si venisse accettati a vivere in una cultura diversa, sarebbe necessario non abbandonare la propria, e anzi fare ritorno in essa per cercare di rinfocolare le tradizioni indigene all’interno  del nuovo, alienato, fondamentalista, mercantile, nichilista, avido stile di vita occidentale.

Tutto ciò è evidente sia se parliamo di tradizioni, che di risorse naturali. In questo momento i “ricercatori genetisti” sono impegnati a studiare alcune piante medicinali brasiliane usate dalle popolazioni indigene. A che scopo? Per curare i nordamericani bianchi e ricchi dalle malattie provocate dalla stupidità della loro cultura. Voglio dire, stanno minando le tradizioni di altri popoli per curare meccanicamente una serie di mali che sarebbe molto più giusto affrontare correggendo la assenza di grazia e fantasia della propria cultura, con un lutto collettivo che li ponga di fronte alla realtà ineludibile della loro mortalità.
La gente dovrebbe anche sapere che molte cose che sono spacciate come indigene, in realtà non lo sono. Molte delle cerimonie all’interno della tenda del sudore, ad esempio, sono di concezione gesuitica. Nessun indiano aveva mai sentito parlare del Grande Spirito, prima del 1850. Tutta farina del sacco dei gesuiti.

Jensen:
Hai avuto modo di dire che uno dei problemi della cultura occidentale sia l’uso del verbo Essere.

Prechtel:
Da bambino parlavo un dialetto denominato Pueblo Keres, che è sprovvisto del verbo essere. Si tratta di un linguaggio composto prevalentemente di aggettivi. Uno dei segreti del mio adattamento a Santiago Atitlan fu che anche nella lingua Tzutujil è assente il verbo essere. Lo Tzutujil è una lingua basata sul mantenimento e la appartenenza, non sull’essere. Ed in assenza dello essere, non ha senso che una cosa sia fatta assolutamente in un modo piuttosto che in un altro.

Alcuni dei diritti e dei torti per i quali le nazioni hanno combattuto e sono morte non sono neanche contemplati dallo Tzutujil tradizionale. Questo non perché lo Tzutujil sia in qualche modo troppo ‘primitivo’ per comprendere  la differenza tra il bene e il male, ma perché la cultura Tzutujil non si basa su stati assoluti di permanenza. I maya sono convinti che nulla permane autonomamente. Ecco perché le loro esistenze sono votate verso la conservazione, piuttosto che verso la creazione. Il verbo essere nella lingua Tzutujil è reso sotto forma di ‘appartenenza.’ Ad esempio, non è corretto dire: ‘Lei è una madre’ ma una madre la si può solo identificare pronunciando il nome di colui di cui essa è madre. Allo stesso modo, non si può dire: ‘E’ uno sciamano’, ma si dice: ‘La sapienza del percorso gli appartiene.’ (v. post correlati)

Affinché la moderna cultura occidentale si diffondesse realmente a Santiago Atitlan, i frustrati leader religiosi, i manager ed i leader politici si occuparono per prima cosa di minare la lingua. La lingua è il collante che tiene insieme gli strati dell’universo dei maya: l’eloquenza del discorso è la linfa vitale ancestrale delle mitologie. Il discorso degli dei era nelle nostre ossa. Ma non appena gli occidentali insegnarono il verbo essere ai nostri giovani, tutto il mondo arcaico maya scomparve nelle fauci dei tempi moderni.

In ogni cultura basata sul verbo essere, il primo interesse è l’identità. Al fine di determinare chi tu sia, è necessario che determini prima chi non sei. In una cultura basata sulla appartenenza, invece, la tua identità è legata al tuo prossimo. E’ definita dal luogo in cui ti trovi e dalle persone di cui ti circondi. Il verbo essere risulta riduttivo anche dal punto di vista espressivo, perché spoglia il linguaggio di molti elementi di ornamento e bellezza. Di contro, con il verbo essere il linguaggio è più efficiente. Il verbo essere è molto efficiente, e consente di costruire le cose. Piuttosto che costruire cose, i maya coltivano lo status quo come si fa con una pianta. Si prendono cura delle cose già esistenti. In passato, quando è successo che abbiano costruito grandi monumenti, non è stato – come nella cultura moderna – per forzare il mondo ad essere in un certo modo, ma al contrario per rimborsare il mondo con una moneta proporzionata ai doni immensi che gli dei avevano concesso al popolo. I maya non forzano il mondo affinché sia come vogliono: essi fanno amicizia con esso; lo invitano a fare parte della loro vita.

Jensen:
In diversi frangenti hai parlato della importanza della manutenzione / conservazione. Che relazione intercorre tra questo concetto e la pratica Tzutujil di costruire edifici fragili?

Prechtel:
Come il corpo fisico, la casa in cui la persona dorme deve essere molto bella e robusta, ma non così robusta da essere immune al deterioramento. Se la tua casa non si deteriora, allora non avrai più alcun motivo per rinnovarla. Ma il rinnovamento è qualcosa di prezioso, perché dà un senso alla manutenzione. Il segreto della solidarietà e della felicità risiede nella generosità della gente, ma la chiave della generosità è l’inefficienza ed il degrado. Dal momento che le nostre capanne non sono costruite per durare a lungo, necessitano di essere rinnovate regolarmente. A tal fine gli abitanti dei villaggi si riuniscono almeno una volta l’anno per lavorare sulle capanne da rinnovare.

I bambini piccoli corrono in giro ostacolando il lavoro della gente. Le giovani donne portano l’acqua. I giovani uomini portato le pietre. Gli uomini più anziani impartiscono disposizioni su cosa fare, e le donne più anziane fanno notare agli uomini anziani dove stanno sbagliando. Una volta terminato il rinnovamento della casa, tutti i partecipanti mangiano insieme, elogiano la casa, ridono e piangono ricordando il passato. In pochi giorni si trasferiscono alla casa successiva. In questo modo, il luogo di ogni famiglia del villaggio viene regolarmente conservato e ricordato. E’ andata così per molto tempo, fino al giorno in cui i missionari, gli uomini d’affari ed i politici importarono nel villaggio l’edilizia moderna. Ora quelle case sono scomparse quasi del tutto, ma i rapporti non sono scomparsi con esse. In un certo senso, oggi sono le crisi che rinsaldano i rapporti nelle comunità. Se c’è un nubifragio, o se si presenta qualcuno per costruire una strada in un quartiere, le persone si riuniscono per risolvere il problema. I maya non stanno ad aspettare che una crisi si verifichi; essi le creano deliberatamente, le crisi.

La loro spiritualità si basa su coreografie catastrofiste – altrimenti note come rituali – nelle quali tutti devono lavorare insieme per ricostruire il loro abbigliamento, o le case, o la comunità, o il mondo intero. Tutto deve essere conservato in quanto tutto fu creato in modo così delicato da deteriorarsi facilmente. E’ la messa che si compie tutti insieme, il rinnovamento che in ultima analisi rende forte qualsiasi cosa. Tutto ciò vale per le nostre case, per la nostra lingua, per le nostre relazioni. E’ un equilibrio delicato che per essere mantenuto richiede una sorta di grazia. Noi tutti vorremmo fare qualcosa che ci sopravviva, ma questa ambizione non dovrebbe tradursi in un edificio, o in un qualsiasi altro oggetto. Tale costante opera di conservazione è l’unica aspirazione degna di essere perseguita.

Articolo in lingua inglese, pubblicato dal sito The Sun Magazine
Link diretto:
http://thesunmagazine.org/issues/304/saving_the_indigenous_soul?page=2

Traduzione a cura di Anticorpi.info

Fonte

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